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Alla vigilia delle elezioni europee è utile fare un bilancio di alcune delle politiche sociali messe in campo dalle istituzioni dell’Unione, anche alla luce della possibile grande trasformazione, non solo dei/delle componenti del Parlamento, ma anche delle sue priorità e linee programmatiche.

Nell’analisi di quello che è successo negli ultimi due mesi si vede la necessità e la volontà di chiudere alcune partite prima della fine della legislatura, anche per scongiurare il rischio che il prossimo Parlamento non torni più su determinati temi.

La corsa contro il tempo ha però evidenziato la frammentazione delle politiche economiche e sociali degli Stati membri e imposto la rivendicazione di interessi nazionali. Si dirà che questa è la politica e che la politica è l’arte del compromesso. È vero, ma è innegabile che in questi ultimi mesi chi osserva le vicende della politica europea ha constatato un clima di rallentamento della spinta sociale da parte della Commissione.

In questo quadro, si va a elezioni in una condizione di generale stanchezza da parte dei cittadini e delle cittadine, nel mentre di una guerra che continua, nel mezzo dell’inflazione e di politiche fiscali che spingono a una contrattazione collettiva di recupero, ma soprattutto si va a chiudere una legislatura in totale opposizione alle promesse del suo inizio: la riforma della Governance risulta, di fatto, il ritorno a politiche improntate all’ austerità.

L’Europa, con il recente accordo sul Patto per l’asilo e le migrazioni torna a chiudersi nella sua fortezza: si tratta di misure improntate unicamente alla sicurezza e al controllo delle frontiere esterne. L’Italia, con il suo Piano Mattei e accordi bilaterali dal destino più o meno chiaro, si avventura in operazioni bilaterali che mettono in discussione invece la necessità di un intervento multilaterale, indispensabile per gestire un fenomeno sempre più strutturale come la mobilità umana.

I segnali di questo affanno in tema di avanzamento nelle politiche sociali è evidente anche nei lavori che hanno portato alla definizione di alcune direttive di interesse sociale e trasversale.

La direttiva sulla Due Diligence, o Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) è il frutto di un negoziato lungo e faticoso. Lo scopo di questa direttiva era di definire norme in materia di obblighi delle grandi società relativamente ai gravi impatti negativi effettivi e potenziali sull'ambiente e sui diritti umani e avrebbe dovuto riguardare la cosiddetta filiera di attività, che comprende i partner commerciali a monte dell'impresa e, in parte, le attività a valle, come la distribuzione o il riciclaggio e lo smaltimento di beni. La direttiva voleva inoltre definire anche norme in materia di sanzioni e responsabilità civile in caso di violazione degli obblighi a carico delle aziende e imporre alle imprese di adottare le opportune strategie affinché il proprio modello di business fosse compatibile con l'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.

Quando un primo testo di accordo è stato raggiunto alla fine del 2023, la Francia aveva imposto di estromettere i servizi finanziari dall'ambito di applicazione della direttiva. A febbraio poi il voto era stato rimandato soprattutto a causa dell’opposizione di Italia e Germania. L’Italia si era detta preoccupata per il potenziale onere sulle piccole e medie imprese. In effetti, il testo della direttiva esclude esplicitamente le Pmi e include criteri per evitare che l'onere della due diligence ricada su di loro, proteggendole ed esentandole di fatto dal controllare la filiera produttiva. La Germania invece ha una sua legge nazionale giudicata dalle imprese eccessivamente rigida e di questa lamentela si sono fatti portavoce alcuni partiti della coalizione governativa e anche quelli di estrema destra.

Per evitare di affossare completamente la direttiva si è deciso di tornare a negoziare e il 15 marzo si è votato un testo ulteriormente modificato e moderato, se non annacquato. E’ interessante segnalare che l’Italia ha utilizzato la CSDDD come scambio: il suo sostegno alla direttiva era legato alle richieste di una legislazione separata sugli imballaggi (packaging per riciclo e riuso), approvata immediatamente prima della discussione su CSDDD. Dopo aver ottenuto ulteriori concessioni sulle norme relative agli imballaggi, Roma ha votato a favore della revisione del dossier sulla catena di approvvigionamento.

Secondo il testo finale concordato venerdì 15 marzo, le regole si applicheranno alle aziende che impiegano più di 1.000 persone e con un fatturato annuo di 450 milioni di euro. Il testo dell’accordo di dicembre parlava di aziende con almeno 500 dipendenti e un fatturato di 150 milioni di euro (numeri che tra l’altro nel corso degli anni dovevano andare a diminuire). Inoltre, il testo suggerisce anche di eliminare qualsiasi riferimento ai settori ad alto rischio che, nelle versioni precedenti del testo, sarebbero stati soggetti a obblighi di due diligence più severi. Gli obblighi di sorveglianza della catena di approvvigionamento non si applicherebbero più allo smaltimento dei prodotti, come inizialmente previsto.

Una settimana prima era stato invece trovato un accordo sulla Direttiva che regola il lavoro di Piattaforma. Anche l’iter di questa Direttiva è stato piuttosto faticoso, tanto che il 16 febbraio scorso il testo di accordo era stato bloccato a causa dell’intransigenza di alcuni Paesi, su tutti la Francia. Nonostante il risultato finale non sia totalmente soddisfacente, questa Direttiva rappresenta comunque un passo avanti per regolare il Platform Work e per dare più strumenti ai sindacati e a chi lavora nel settore. Infatti, per la prima volta, si danno risposte per una maggiore trasparenza nella privacy dei dati e per una migliore regolamentazione della gestione algoritmica. La Direttiva va inoltre a facilitare il beneficio di tutti i diritti lavorativi in base al proprio status occupazionale. Quello che manca però è la previsione di una presunzione generale di occupazione, così come mancano requisiti rigorosi e armonizzati per la riclassificazione dei/delle lavoratori/trici di Piattaforme. In pratica, anche se è vero che la dimostrazione dello status lavorativo sta in carico all’azienda e anche se si stabilisce che cardine della Direttiva è il contrasto al falso lavoro autonomo , si lascia però agli Stati membri l’attivazione e l’applicazione di procedure nazionali per prevenire e risolvere errori di classificazione (leggi, contrattazione, giurisprudenza). Il testo iniziale prevedeva invece l’indicazione di linee guida per la definizione dello status lavorativo. Questo significa che i criteri dovevano essere determinati dalla Commissione Europea anche per garantire uniformità.

La svolta della Direttiva sta proprio in questo punto. La Francia aveva criticato sin da subito la proposta, perché schierata a favore del mantenimento di rapporti di lavoro autonomi nel settore della gig economy. E così come per la Direttiva sulla Due Diligence anche in questo caso l’attività lobbystica ha lavorato e funzionato molto bene. Chi riassume gli intoppi della Direttiva lo fa infatti invocando il potere delle multinazionali, nello specifico di Uber, nei confronti soprattutto del governo francese.

Questi due esempi dimostrano come, in misura diversa, nonostante si parta con le migliori intenzioni, i contenuti possano essere alla fine condizionati. Ma se, come già detto, notiamo un arretramento della spinta sociale, non si può ammettere un arretramento nella spinta civile.
A febbraio la Commissione Europea ha annunciato il raggiungimento di un accordo tra il Parlamento europeo e il Consiglio dell’ Unione Europea sulla nuova direttiva per contrastare la violenza di genere. Anche in questo caso, non possiamo negare che la notizia sia positiva. Si tratta infatti del primo strumento adottato dall’Unione per dotarsi di standard comuni nel contrasto alla violenza di genere e porta con sé anche contenuti importanti. Eppure, anche su questa Direttiva si è molto discusso e alcuni temi sono risultati inaspettatamente divisivi. Manca per esempio la definizione di molestie sessuali subite nel luogo di lavoro, ma soprattutto manca il riconoscimento del sesso senza consenso come reato. Questo sarebbe dovuto alla differente rilevanza del principio del consenso nelle differenti legislazioni e questo tema non rientrerebbe nelle competenze giuridiche dell’Unione.
Le questioni più contrastanti sono state quindi semplicemente tolte dal tavolo.

La CGIL, coordinata dall’Area delle politiche europee e internazionali, ha monitorato l’andamento delle direttive, partecipato a iniziative di mobilitazione a Bruxelles e scritto a più riprese ai/lle parlamentari e ai rappresentati italiani nel COREPER[1] per chiedere miglioramenti e invitare i/le parlamentari eletti/e a Bruxelles a sostenere con il proprio voto le diverse iniziative legislative.

Foto di Christian Lue su Unsplash